Meloni e mandarini

26 Maggio 2011

Sto mangiando un melone. Il primo della stagione. Ma io i meloni non li mangio ma mica perché non mi piacciono. Perché ho paura che sia cattivo, come facevo con i mandarini. E se adesso mangio il melone, così, senza pensarci troppo su, non può essere che un buon segno.
Ed ecco un altro ripescaggio dal passato.

La parabola del mandarino cattivo  (15 febbraio 2008)

Bar, ora di pranzo. Sono seduta al tavolo con due ragazze e  Leo Mantovani. Si ride, si chiacchiera e si sparano delle cazzate nell’ora d’aria che rasserena la giornata. Una delle due compagne di merende estrae dalla borsa un sacchetto di mandarini e lo mette sul tavolo. L’altra compagna mi chiede se mai ne volessi uno.
“No, grazie” rispondo gentilmente “io i mandarini non li mangio”.
“E perché?” mi chiedono le due sorridenti fanciulle.

“Perché ho paura di trovare il mandarino cattivo”.
“Cioè?” dice il resto della tavolata in coro.
“E’ che se mangio un mandarino e becco quello cattivo, il sapore mi rovina la giornata. Allora io ho smesso di mangiarli”.
Leo Mantovani si gira e con sguardo saggio mi dice “Vedi, tu nella vita ti comporti come con i mandarini. Per paura di trovare quello cattivo, tu non rischi neanche e rinunci del tutto a mangiarli”.
Questa parabola vuole spronare tutti quelli che hanno paura e timori a prendere quel sacchetto di carta, infilare dentro la mano e prendere quel mandarino, rischiando anche di sputarlo se non è buono.

Mi arriva oggi questo messaggio da un amico “Ma allora sarai d’accordo con Chiara Moscardelli”. Rispondo “Chi è? Quella delle gatte morte?” e lui “Sì, ho letto del web tormentone. Da morir dal ridere. Penso corrisponda alla tua categoria alla tua categoria delle chihuahua che tra l’altro mi piace di più. Ma il dibattito è il medesimo che sviluppi tu”.
Confesso che con supremo snobismo ho frequentato poco questo dibattito (tra l’altro per me Kate Middleton non è una gatta morta). Se da un lato mi annoiano discussioni che mi hanno appassionata anni fa in quella bellissima avventura del blog, da quell’altro mi infastidisco a pensare che sono stata poco furba a non trasformare l’epopea delle Diversamente Frigide (DF per i cultori) in uno di quei libri rosa che stanno nelle librerie negli stessi scaffali de Il diavolo veste Prada e la serie I love shopping.
Ho deciso allora di rieditare e rendere più attuali alcuni post scritti a partire dal 2007  e ripubblicarli qui , così anche quelli che si lamentano che non scrivo più avranno la loro piccola soddisfazione. E magari anche per strappare qualche risata nuova a chi a quei tempi non era DF o una di lei/loro simpatizzante.
Per Chiara Moscardelli e il suo “Volevo essere una gatta morta” https://www.facebook.com/Volevo.essere.una.gatta.morta

Chihuahua o piccole iene? (19 novembre 2007)

La mia amica Maude ed io qualche settimana fa, in un impeto di catalogazione, abbiamo individuato abbiamo individuato l’ennesimo modello femminile a noi DF uguale e contrario. Trattasi di donna chihuahua o come cacchio si scrive. La donna chihuahua  è minuta, ha gli occhioni grandi tipo quelli con le stelline di Candy Candy ed ha un’espressione tra lo smarrito e il Pierrot, che pare sempre che una lacrima sia prossima a sgorgare. La chihuahua ha anche una vocina flebile flebile, che alle DF sta irrimediabilemnte sul cazzo mentre agli uomini il cazzo glielo fanno drizzare. L’uomo, con il più primitivo del suo istinto, questa cagnolina vuole prenderla tra le braccia, stringerla a sè e proteggerla da tutte le sue malinconie e da tutti gli ostacoli che per sua naturà incontrerà. E mentre l’uomo culla la sua chihauhuina,  e la accarezza premurosamente sul capo e la sbaciucchia amorevolmente sulla fronte, quella che dietro l’aspetto indifeso invece è una piccola e grande iena, si sta accingenda a mettergliela nel culo. Ma l’uomo avrà ottenuto quello che vuole, mettere la scuffietta da crocerossino e avere l’impressione di essere indispensabile, perchè la piccola iena deve essere salvata. E se l’infermierino del Pronto Soccorso guardasse con più attenzione noi DF, che teme e percepisce come delle pericolose orsacchiottone grizzly, scarpe-dipendenti e con l’atteggiamento di chi non deve chiedere mai, si accorgerebbe che le DF non sono più minacciose dell’orso Yoghi.

Per i neofiti che si chiedessero quali sono i tratti distintivi delle DF, confesso che era in progetto una Fenomenologia rimasta poi incompiuta. In poche parole, le Diversamente Frigide sono quelle zitelle trentenni che faticavano a trovare l’altra metà della mela. Affette da compulsività nello shopping, maniache delle scarpe e degli abbinamenti tra queste e la cintura, sono ragazze sveglie che pensano che la loro intelligenza sia un ostacolo alla loro vita amorosa. Ecco perché se la prendono tanto con quelle donnine che si limitano a sorridere con garbo e a sgranare gli occhi, reclinando dolcemente il capo.

Ho trovato questa lettera nella vecchia casella di Splinder del vecchio blog.
Mi ha molto colpita, la ragazza ha bisogno di una mano ed io non voglio esimermi.
Eccola.

Cara Aeiouy,
n
on so se leggi ancora questa posta ma provo a scriverti lo stesso perché ho bisogno di un consiglio. Ero una tua vecchia lettrice, non ho mai commentato però ma mi faccio coraggio ed esco allo scoperto perché da sola non riesco a trovare una soluzione a questo dubbio.
Devi sapere che io adoro i dolci di carnevale. In seconda media un mio compagno di classe mi diede la ricetta delle sue sfrappole e da quell’anno (considera che io ho 36 anni) prima del mercoledì delle ceneri mi faccio le mie belle sfoglie di dolci carnascialeschi, ricoperti di tanto zucchero a velo e annaffiati da ottima coca cola.
Durante l’adolescenza ero solita deliziare anche i miei fidanzatini del tempo con queste prelibatezze solo che dopo poco la storia con questi terminava. Mia madre pensa che le sfrappole portino sfiga alle mie storie d’amore e se dopo Natale (che dopo è sempre Carnevale) trovo da far bene, mi dice sempre “Per carità, non fargli le sfrappole!”. Secondo me questo è solo una stupidaggine, non c’è alcun maleficio che incombe sulle mie specialità, ma sai come si dice “non è vero ma ci credo”.
Eccomi dunque al punto. Sto frequentando da un po’ di tempo un ragazzo bellissimo che sembra che mi voglia bene. Ci vediamo tutti i giorni, facciamo un sacco di cose insieme e apprezza la mia cucina che ha in più occasioni sperimentato. Martedì grasso è alle porte e io non ho ancora avuto modo di fare le sfrappole quest’anno. Certo, le facessi, non potrei nascondergliele perché la casa si riempie di puzza di fritto, anche se apri le finestre. E io mica me le mangio tutte in un colpo solo, anche se ne sono veramente ghiotta. Io non voglio rinunciare ad uno dei miei momenti preferiti dell’anno. Quindi, cara Aeiouy, cosa mi consigli? Non faccio entrare fino alle ceneri il mio fidanzato in casa così non scopre quello che ho fatto oppure sfido la sorte e il sortilegio e gliele faccio magiare lo stesso. Ti prego, aiutami (mi appello ance ai tuoi affezionati lettori). Da sola proprio non riesco a decidermi.
Grazie tanto.

Paloma disperata

 

 

Parole

31 dicembre 2010

Sto per archiviare il 2010, un anno tondo. Mi guardo indietro e cerco di ricordare come è andata ma la fretta del quotidiano mi sa che ha spazzato via tutto. Non perché gli ultimi 365 giorni siano stati da dimenticare ma forse perché è meglio rimanere proiettati verso il domani.
Però so che è stato un anno di parole.
Di parole dimenticate, di parole imparate.
Di parole scritte, e tante.
Di parole parlate, altrettante.
Di parole tolte.
Di parole regalate, in alcuni casi restituite ma in nessun caso buttate.
Di parole che hanno raccontato la  vita, ogni giorno.
E per il 2011 spero di imparare ancora e di più, spero di avere ancora interlocutori, persone che ascoltano e che discutono, persone che magari non sono d’accordo ma che ti offrono l’occasione di crescere.
Movimento, fremiti, fermento come l’acqua che bolle. Curiosità ed entusiasmo, sale della  vita. Ecco quello che auguro a tutti – e a me – per l’anno nuovo.

Ansia Natale

20 dicembre 2010

Ecco, mancano 5 giorni e io sono ancora in alto mare. Accompagno gli altri a fare i regali poi per me non ho risolto un cacchio. Giro con la lista, mi spacco la testa ma non vengo a capo del mio rompicapo natalizio. In lista gente a cui dono da 30 anni, alcuni 20, altri 10. Le nuove conoscenze non le abituo al supplizio.
E poi i brindisi e le feste. Che cazzo ci facciamo gli auguri che tanto ci vediamo tutti i giorni e dopo pochissimi giorni, purtroppo ci rivedremo. Perché non ci regaliamo un po’ della nostra sana assenza? Giusto per apprezzarci di più a gennaio.
E poi tornare a casa con il treno che nel 2010, dopo 15 anni di su-e-giù, non si riesce a fare un viaggio comodo, pulito, puntuale, caldo.
E i bagagli, e i regali, e le mutande (un anno sono scesa senza biancheria intima), e i trucchi (un anno sono scesa senza trucchi), e le lenti e il liquido (un anno sono scesa senza lenti e liquido) e quella borsa carina che si abbina con quelle scarpe e con quella giacca perché se a Bologna ci tengo perché ho tutto qui, non capisco perché giù mi dovrei vestire da boscaiolo.
Di tutto lo spirito natalizio adesso mi rimane solo l’ansia. Ansia da regalo, ansia da prestazione, ansia da saluto. Mi ricordo quando a fine novembre imboccai via Clavature e vidi le prime lucine. Che belle. La strada era vuota. Il freddo picchiettava le guance e mi riscaldava il cuore. Quando tutto era ancora lontano. L’aria di festa per me non va oltre l’8 di dicembre.
Quello era sincero spirito natalizio, gioia infantile in attesa di Babbo Natale. Ora, piuttosto, vorrei che Babbo Natale mi facesse da segretario e da personal shopper.

Mario Monicelli si è ammazzato buttandosi dalla finestra a 95 anni ma se avesse avuto una donna al suo fianco non ci sarebbe mai arrivato.

«Per rimanere vivo il più a lungo possibile. L’amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell’animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più».

Il tubino nero

16 novembre 2010

Da qualche giorno sono ritornata in possesso di un libro cui sono molto affezionata. L’avevo trovato per caso in una libreria, ce n’era rimasta una sola copia. Mi piacevano il titolo, il formato, il fatto che fosse molto breve e soprattutto la scrittrice. Il titolo era très chic, “Il tubino nero” e l’autrice ancor di più, Françoise Sagan, di cui lessi durante l’adolescenza “Bonjour Tristesse”, cui nel 1969 era stato commissionato un intero numero di Vogue. In poche pagine, meno di un centinaio, sono condensate una serie di ritratti deliziosi, il pensiero dell’attrice su abiti, uomini, amore e altre donne.
Il mio libricino è pieno di post it e sottolineature perché non volevo che certe cose che avevo letto scivolassero via. Per questo motivo mi piace l’idea di appuntarle qui.

Non ci vestiamo per fare colpo sulle altre donne o per fare loro rabbia. Ci vestiamo per spogliarci. Un abito è davvero un abitosolo quando un uomo ha voglia di potervelo togliere. E dico togliere, non strapparlo via con grida di orrore.

Si dice che una donna si veste per il suo entourage, per gli uomini, per gli amici. In realtà è per sé che si veste. Per sentirsi bene e per avere un atteggiamento di conquista che le dà davvero l’impressione di essere in forma. Ma ci sono dei giorni in cui ci sentiamo giù e qualunque cosa indossiamo ci vestiamo in modo sbagliato. Meglio scegliere un vecchio maglione, o una vecchia gonna. Insieme a questi vecchi complici sappiamo che passeremo più o meno inosservate, ma ci sentiremo a nostro agio.

Poi mi chiedo per quale motivo il riso, per quanto piacevole sia, rimane sempre così innocente? Perché lo è. Non ci vergogniamo mai veramente di ridere: perché? Il riso è involontario (o può esserlo), senz’altro, e a volte ci vergogniamo di inciampare nelle lacrime, o nel sadismo – pulsioni altrettanto involontarie. Ma non possiamo vergognarci di ridere; perché ridere è una reazione trionfante. Nessuno può avere ragione su qualcuno che ride, né può averla vinta. E inoltre, nessuno può ordinare, far scoppiare o far smettere le risate degli altri (grazie a dio). E sappiamo bene che qualunque terza persona , testimone di una risata che, o per ignoranza o per incomprensione, non condivide, trasforma automaticamente questa risata in una risata in una risata irrefrenabile; e che il suo imbarazzo, la sua frustrazione e il suo fastidio, trasformati in vera umiliazione, lo gettano in una di quelle rare situazioni dove l’unica via d’uscita è la fuga.

Il riso è anche uno dei principali segni rivelatori in quella inchiesta senza omicidio che è la gelosia dei gelosi nati. Personalmente non faccio parte di questa razza così sofferta che essi rappresentano. Mi è successo di vedere qualcuno che amavo un po’ con esclusività, parlare intensamente con un’altra persona, o sussurrarle qualcosa che non potevo udire, senza provare la minima inquietudine; invece, devo dirlo, sentire questo qualcuno ridere con qualcun altro di un riso allegro, pieno e fiducioso che io e lui condividevamo da soli fino a quel momento, mi ha sempre allarmata: se queste due persone che ridono avevano già ceduto insieme al piacere condiviso e sensuale del riso, perché non avrebbero potuto cedere ad altre  inclinazioni meno innocenti e più profonde?

Françoise Sagan “Il tubino nero”, Barbès Editore.

Martedì andrò a Milano per il concerto dei National, regalo dei miei amici per il compleanno. Non vedo l’ora, mi piacciono un sacco, la voce calda e rassicurante del cantante mi accarezza ad ogni ascolto. Al primo ascolto, su tutte, una canzone mi ha particolarmente colpita. Si chiama “Baby we’ll be fine“, un ritornello lievemente ossessivo come piace a me che dice “i’m so sorry for everything, ‘m so sorry for everything, i’m so sorry for everything”. Al di là del significato del testo, spero di ascoltare questa canzone martedì. Ma so che non accadrà, così come non è accaduto negli ultimi concerti ai quali sono andata speranzosa, sperando di ascoltare la mia canzone prediletta. Dente non ha cantato “La presunta santità di Irene” o “Oceano”, Antony Hegarty non mi ha fatto la sua versione di “Crazy in love” di Beyoncè e gli Arcade Fire non hanno suonato – e questo è stato scandaloso – “Rococò”, solo per citarne alcuni (ci metto dentro anche “Direzioni Diverse” del Teatro degli Orrori cantata per prima e completamente riarrangiata).
Una maledizione incombe nelle mie scelte. In un intero repertorio di canzoni di anni e album diversi, io riesco a capare nel mazzo quella che gli artisti di turno decidono di non fare al loro concerto. E così investo energie ed emozioni nel recarmi speranzosa allo spettacolo, come si fa ad un appuntamento cui si tiene. E puntualmente la canzone non viene eseguita.
Così come già accade nella mia vita amorosa, mi innamoro sempre delle canzoni sbagliate. E nell’attesa di capire perché, intanto mi ascolto la canzone che tanto martedì non ci sarà.

Innumerevoli sono i racconti del mondo. In primo luogo una varietà prodigiosa di generi, distribuiti a loro volta secondo differenti sostanze come se per l’uomo ogni materia fosse adatta a ricevere i suoi racconti: al racconto può servire da supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l’immagine, fissa o mobile, il gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro, le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione. Ed inoltre sotto queste forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte: il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, trans-culturale, il racconto è là come la vita.

Roland Barthes “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti”, A.A.VV. L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969

Gioventù bruciata

26 ottobre 2010

Un episodio mi ha portato a fare una riflessione. Da “Ritorno al futuro” alla scarsa considerazione che si ha dei trentenni, che se sparissero in un battibaleno dall’Italia adesso, nessuno forse ne sentirebbe neanche la mancanza.
Collaboro con una testata locale. Dal 10 ottobre monitoro quella che secondo me sarà una bomba per chi ha la mia età. Il ritorno nelle sale per un solo giorno di “Ritorno al futuro”. Sul web impazza il passaparola (il web per i “grandi” è interessante solo quando è uno strumento del demonio). L’appuntamento era il 15 ottobre il sito nexodigital.it per scoprire in quali cinema il film sarebbe stato proiettato. Verso il 17 finalmente si scopre il cinema bolognese prescelto e, con grande entusiasmo, propongo la cosa al mio referente al quotidiano che liquida l’evento con un “chissenefrega”. Non mi lascio scoraggiare, forte della decina di giorni che avevo di fronte (la proiezione è fissata al 27/10) e persevero. Stavolta col capo, al quale cerco di fare capire che per noi è importante, che nei social network non si parla d’altro, che non è un film sciocchino ma un evento vero e proprio. Il giorno dopo continuo la mia battaglia personale. La mia interlocutrice stavolta finalmente capisce quello che voglio dire (nel frattempo avevo scoperto che la DeLorean sarebbe passata per Bologna) ma mi dice “Molto bello ma oggi non c’è posto”. Continuo anche il giorno dopo, incasso un altro “chissenefrega” e vedo che il giorno dopo il sito nazionale del quotidiano con il quale collaboro lo mette in home page.
Quindi a qualcuno del gruppo evidentemente interessa, dico tra me e me. Arriva ieri. Neanche chiamo più perché di combattere coi mulini a vento mi ero rotta le palle. Avrei tentato in extremis di rilanciare per la proiezione che sarà domani. Nessuno mi avrebbe calcolato nel giorno in cui il candidato sindaco in tuta diceva che per lo stress rinunciava alla corsa.
Invece accade il miracolo. Squilla il telefono e il mio referente, che per sbaglio legge delle agenzie sulla DeLorean, mi dice finalmente “Fammi ben 30 righe”.
Finalmente, mi sentivo la vincitrice di una battaglia piccola ma significativa. Scopro che la macchina sarebbe passata da Bologna e chiamo magari per mandare un fotografo. Non faccio in tempo a finire che capisco che non avrei ottenuto nulla. Che poi non era per me che lo facevo ma per dare un’informazione a chi come me si stava entusiasmando per questo pezzo di adolescenza che stava per passare in città.
In fondo anche i trentenni lo comprano il giornale e forse il giornale dovrebbe parlare anche di qualcosa che a loro interessa. Scrivo le mie righe, contenta, e le invio. La santa donna che mi risponde al telefono stavolta capisce che si trattava di una cosa carina, dice “Mandiamo il fotografo. Adesso lo spiego io”.
Con un po’ di speranza negli occhi, vado in osteria. E racconto l’happy end e del passaggio della DeLorean a Bologna e delle proiezioni al Capitol e di tutto quello che avevo appreso. Vedo i luccichini negli occhi dei miei interlocutori coetanei. Uno addirittura era impazzito come me a cercare informazioni. Mi dice che nelle altre città si stavano organizzando delle feste per l’occasione ma non a Bologna.
Io avrei voluto fotografarla quell’espressione negli occhi di quei trentenni come me per mostrarla ai quarant-cinquant-sessantenni che quella luce si ostinano a non vederla.
Quell’emozione stamattina di fronte alla DeLorean. Lo sforzo fatto per svegliarsi prima, il bagnarsi e il prendere freddo. Perché uno per un po’ d’entusiasmo lo sforzo lo fa. Io per prima faccio sempre fatica a cominciare la giornata ma stamattina no, ero contenta. E mentre parlo con i miei amici e con quelli che erano accorsi a vedere l’auto che domani andranno al cinema a rivedersi il film, la mia notizia si trova relegata all’ultima pagina.
È vero, la città non ha più un sindaco ma il nostro entusiasmo poteva essere trattato meglio.
E come noi rimaniamo soli con “Ritorno al futuro” così lo siamo come lavoratori parasubordinati condannanti a pagare il 26,72% di aliquota contributiva all’INPS per mantenere nonni e genitori, con la prospettiva di aumenti indiscriminati nei prossimi anni. Con un presidente dell’ente previdenziale che dice “Non possiamo fornire le simulazioni della pensione ai lavoratori parasubordinati, rischieremmo un sommovimento sociale”. E noi trentenni a non fare niente di niente, se non linkare da un social network all’altro la notizia e a continuare a pagare con le orecchie basse milionari F24. La cosa più rivoluzionaria che ho letto sulla questione è che Mastrapasqua si scrive Mastrapasqua e non Mastropasqua. Io se penso alla pensione spero solo di morire prima di arrivarci.
E la colpa è nostra che non facciamo casino. Che ci proviamo un po’ e poi ci stufiamo di combattere contro i mulini a vento. Se è no è no, c’è entusiasmo la prima volta, la seconda e anche la terza anche nella “lotta” ma poi riga. E intanto nessuno di noi trentenni protesta per l’impossibilità nel nostro paese di fare una qualsivoglia carriera, di avere una qualsivoglia prospettiva di crescita, di guadagnare qualcosa che non vada in contributi ma chennesò, tipo in una vacanza.
Solo responsabilità, no soldi, no riconoscimenti.
E quindi no entusiasmo. O per lo meno non più. L’Italia non è un paese per vecchi ma manco per i giovani a ‘sto punto, posto che a trentenni uno possa ancora considerarsi tale.
E cosa ci rimane? Al momento la proiezione di domani di “Ritorno al futuro”, per tornare adolescenti e protetti e soprattutto inconsapevoli di ciò che ci sarebbe accaduto.

NB: la parola entusiasmo contiene la stessa radice di “dio”. Essere entusiasti significa essere “indiati”, avere la divinità dentro e un dio non lo si massacra così.